Mantenere una certa coerenza nella rivendita edile in un mondo che cambia comincia a essere un lavoro complicato. Dopo decenni di faticosa crescita, anche per distinguersi, la tentazione di lasciarsi affascinare dal nuovo finto appare sempre più forte. Ma certi valori della rivendita edile non dovrebbero essere messi sul mercato dell’innaturale.
Forse sarete d’accordo con me che i valori veri di una rivendita edile, per intenderci quelli da preservare e cercare di migliorare, sono la sua storicità (quindi la sua oggettiva diversità), la sua competenza (quindi il suo contributo di esperienza), la sua crescita intellettuale (quindi la sua capacità di selezionare e offrire innovazione), la sua empatia (quindi l’abilità di relazionarsi con il cliente).
Si tratta di concetti che dovrebbero essere ormai assodati, non se ne dovrebbe più nemmeno parlare, ma il mondo sta cambiando e l’invasione dell’intelligenza artificiale, con la sua promessa neanche tanto velata di appiattimento cerebrale che porta con sé, potrebbe affascinare i più pigri: perché perdere tempo a pensare se c’è qualcuno che può farlo per te? Magari anche meglio, sicuramente più velocemente?
Ecco allora che i valori qui sopra elencati, ancora autentici e veri, cominciano ad assumere oggi una valenza rivoluzionaria.
L’identità della distribuzione edile all’interno della filiera delle costruzioni è sempre stata messa a dura prova.
Per decenni considerati un inutile passaggio in più, giusto buono per far lievitare i costi dei prodotti, gli imprenditori della distribuzione edile si sono dovuti reinventare come fornitori di servizi, per aggiungere valore al semplice prodotto e anche per avere una identità più marcata e distinguibile, per dare un significato apprezzabile alla loro presenza nel mercato.
Costruzione della competenza, crescita tecnica, miglioramento della relazione con il cliente (meglio: i clienti, non ce n’è più solo un tipo) sono costati per molti sangue sudore e lacrime, soprattutto quando si doveva decidere se provare a crescere oppure no, se investire o aspettare tempi migliori che magari non sarebbero nemmeno mai arrivati.
Tutto questo lavoro non è certo andato sprecato. Seppur fra tante difficoltà, oggi un punto vendita di materiali edili organizzato, che sa quel che vende e che sa anche consigliare in modo pertinente, da passaggio in più è diventato un passaggio necessario. Non solo per i suoi clienti, ma anche per i fornitori.
Quindi, dopo questa bella rivincita morale la questione dell’identità e dell’adeguatezza di un’azienda all’interno della succitata filiera delle costruzioni potrebbe essere rivolta ad artigiani, imprese edili e in parte anche al mondo della produzione. Questi interlocutori sono certi di essere cresciuti in modo altrettanto convincente?
Ovviamente non si può generalizzare, le eccellenze esistono in tutti i comparti produttivi, ma è indubbio che il successo della distribuzione edile nazionale sia anche dovuto al fatto che esistono artigiani, imprese e anche parte della produzione che, almeno per il momento, non hanno saputo fare passi avanti, rimanendo ancorati a principi commerciali inadeguati al nuovo mercato.
Allo stesso modo, non tutta la distribuzione edile è oggi in grado di competere con armi che non siano il prezzo, sempre che il prezzo possa essere considerato un valore coerente per competere, ed è un discorso che riguarda anche la produzione.
Se la filiera delle costruzioni ha bisogno di una identità marcata per essere credibile e affidabile, la crescita dovrebbe riguardare tutti i suoi protagonisti, chi più chi meno, ma tutti. Inutile dire che così non è, da sempre.
Per questo è forse il caso di sottolineare che i valori espressi all’inizio di queste note hanno di bello che non sono punti di arrivo ma eterni work in progress, ovvero peculiarità che hanno bisogno di un monitoraggio e di una attenzione seri e costanti.
E di bello hanno anche sono il risultato di impegno e sacrificio, la loro solidità arriva anche dalla moltitudine di errori e di ravvedimenti che si sono sviluppati negli anni. Insomma, una bellissima storia di umanità, con tutti i suoi fallimenti e i suoi successi.
Ma nel mondo che ci aspetta, quello che pensiamo di costruire e che invece stiamo più o meno coscientemente subendo, ci sarà ancora spazio per questi romantici valori? Servirà ancora, domani, avere una identità precisa e differente da altre, avrà ancora un senso cercare di distinguersi, di essere migliori?
Come ricordo sempre, il nostro è un mondo pragmatico, ma anche molto fragile. Le scorciatoie, per esempio delegare a un programma i pensieri, come sceglierli e come esprimerli, potrebbero diventare una povera e sgradevole alternativa all’identità così duramente conquistata.
di Roberto Anghinoni
Perché le tasse sono aumentate
Meno tasse per tutti? Non proprio: lo scorso anno la pressione fiscale è aumentata in termini nominali del 5,7%, mentre il Pil, sempre in termini nominali, è cresciuto di solo il 2,9%. Risultato: le tasse per imprese e cittadini sono più pesanti e rispetto a tutto quanto l’Italia produce il 42,6% è andato al fisco. Difficile che nel 2025 vada meglio. E dire che diminuire le tasse era al primo posto degli obiettivi del governo. Contrariamente a quanto la pancia suggerisce, però, non bisogna dimenticare che il vero problema non è l’aumento delle tasse. D’accordo, a tutti piace pagarne meno, anzi, non versarne affatto. Ma il punto è un altro: dipende tutto da come si spendono i soldi pubblici. I soldi incassati da Irpef, Ilor, Iva, Imu eccetera sono impiegati in modo razionale? La sanità funziona? I treni sono sufficienti, funzionano e arrivano in orario (chiedere ai pendolari). Le forze dell’ordine, che in Italia sono molto più consistenti rispetto a Francia e Germania, tengono sotto controllo la criminalità? Rispondete voi. Valutare la pressione fiscale senza tener conto di quello che produce, insomma, ha poco senso.
Anche perché lo Stato italiano spende più o meno come gli altri. Secondo Eurostat, l’ente statistico europeo (un organismo tecnico, non politico), la media Ue di spesa pubblica è del 47%. In Italia (dati 2018, ma non è cambiato granché) era del 48,4%, superiore al 44,6% della Germania, ma simile a quella dei cosiddetti Paesi frugali (cioè Svezia, Danimarca, Olanda e Austria). Senza contare che in Francia lo Stato assorbe il 56% del Prodotto interno lordo.
E, certo, anche negli altri Paesi i cittadini non fanno salti di gioia nel pagare le tasse. Ma la risposta anche all’estero sta nel risultato, cioè nei servizi che lo Stato, ma anche Regioni e Comuni, forniscono a cittadini e imprese (scuola, sanità, sicurezza, infrastrutture, pensioni). Insomma, il motivo dell’insofferenza italiana è in parte culturale (la scarsa propensione a considerare la cosa pubblica un bene comune), ma anche il fatto che non tutte le tasse si traducono in servizi per imprese e cittadini. Ma perché i servizi pubblici in Italia sono spesso inferiori a quelli degli altri paesi? La colpa è di un mostro vorace: il debito pubblico. Se lo Stato non dovesse pagare dai 40 ai 70 miliardi all’anno di interessi sul debito (la cifra varia secondo i rendimenti pagati sui Btp), l’incidenza del fisco della spesa pubblica sarebbe lievemente inferiore alla media dell’Eurozona e non molto superiore a quella della Germania.
Sempre secondo Eurostat, si escludesse dal calcolo il pagamento degli interessi sul debito pubblico, il tasso di restituzione (cioè quanto torna ai cittadini sotto forma di servizi) sfiorerebbe il 94%, meglio di tutti i Paesi dell’eurozona.
Il risultato è che sulle imprese pesa un carico fiscale complessivo pari quasi il 60% dei profitti commerciali, con 238 ore necessarie per gli adempimenti fiscali distribuiti su 14 pagamenti l’anno (dati anche questi al 2018), contro una media europea di 161 ore. Numeri che sono frutto del rapporto Paying Taxes 2020, realizzato dalla Banca Mondiale e da Pwc, e che assegna all’Italia il 128esimo posto sui 190 Paesi in esame, in peggioramento rispetto al già non entusiasmante 116esimo posto della precedente edizione. Ci sono, poi, i costi indiretti: sempre secondo il report, le aziende impiegano 42 ore per la richiesta di rimborso Iva, incluso il tempo speso per rispondere alle richieste ricevute nel corso delle verifiche fiscali dal fisco, molto più delle 18,2 ore della media mondiale e delle sette ore della media europea. Come stupirsi, quindi, se le tasse risultano così antipatiche?