La maggior parte dei pannelli solari installati sui tetti, si sa, possono immagazzinare energia solo per pochi microsecondi alla volta. Ma c’è nuova tecnologia sviluppata dai chimici della dell’Università della California, Los Angeles (Ucla), che riesce ad accumularla per diverse settimane, un progresso tecnologico che si ispira alla fotosintesi clorofilliana e che potrebbe cambiare il modo di progettare celle solari.
Nella fotosintesi, le piante esposte alla luce solare usano con precisione delle strutture nanoscala, organizzate per separare nelle loro celle i carichi positivi da quelli negativi: in pratica allontanano gli elettroni con carica positiva dalla molecola che lasciano indietro. Questa separazione è la chiave per rendere il processo efficiente, ha spiegato Sarah Tolbert, professore di chimica a Ucla e uno dei principali autori della ricerca condotta dall’Ateneo. Ma in che modo questo processo potrà influire sulla produzione delle celle solari? Attualmente l’industria sta cercando di sostituire il silicio, uno dei materiali in grado di catturare i raggi del sole, con la plastica perché meno costosa, ma poco efficiente perché le cariche elettriche positive e quelle negative spesso si ricombinano prima che possano diventare energia elettrica. Fino a ora: seguendo il modello esistente in natura gli scienziati hanno disegnato una struttura che organizza in maniera ordinata i due materiali plastici, chiamati fotovoltaico organico, di base, un polimero con la funzione di assorbire la luce solare e passare gli elettroni a una molecola simile al fullerene. Questo processo genera energia elettrica, ma la vera differenza sta nel fatto che alcuni fullereni sono posizionati all’esterno e mentre prendono gli elettroni dai loro simili più vicini ai polimeri sono troppo lontani da questi ultimi per potersi ricongiungere. Ecco perché riescono a immagazzinare energia per settimane. A questo punto non resta che uscire dal laboratorio e applicarlo alle celle solari su un tetto vero.