I punti neri della White list

Diceva Giovanni Giolitti che per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono. Verissimo. Lo testimonia la vicenda delle White list: un’ottima intenzione che strada facendo rischia di trasformarsi in una legge trappola. Ed è proprio con le cattive regole che si rallenta l’economia la quale, al contrario, ha bisogno di meno burocrazia e più incentivi all0 spirito di iniziativa.

Riepiloghiamo: la White list, come indica il nome, è una rubrica in cui sono elencati i «bravi in condotta», cioè le aziende che non hanno a che fare con mafia & c. L’iscrizione alle liste è volontaria e dura un anno. L’idea è snellire le procedure favorendo chi non ha a che fare con le organizzazioni criminali. Una volta che l’azienda si è iscritta alla lista, la prefettura ha 90 giorni per dare l’ok, dopo aver consultato la Banca dati antimafia. Se tutto va bene e ottengono il via libera, i costruttori iscritti a questo albo dovrebbero bypassare le complicate procedure antimafia, per esempio nell’assegnazione degli appalti. Ottima idea. Peccato che ci sia qualche difetto di fondo. Primo: l’iscrizione a queste liste è facoltativa. Eppure è evidente che, come sostengono le aziende di edilizia e costruzioni, «su base volontaria il sistema non funziona» (Vincenzo Bonifati, Ance, dixit). Le organizzazioni di categoria insistono, infatti, sulla richiesta di rendere obbligatoria l’iscrizione alla White list, in modo da eliminare in modo radicale le «zone nebbiose» del settore. Secondo: la Banca dati antimafia prevista dalla legge in realtà non esiste: un classico della burocrazia all’italiana. Ci vorrà almeno un altro anno (forse) prima che questo database sia messo a disposizione delle prefetture. Nel frattempo ogni città, in attesa di un sistema unico, si deve arrangiare con controlli affidati ai singoli funzionari prefettizi. Ma come facciamo a sapere che gli stessi criteri sono utilizzati a Palermo e Milano, Torino e Reggio Calabria? Quanto potrà valere questo rating di buona condotta? Solo un meccanismo omogeneo dello Stato può (o forse sarebbe meglio dire potrebbe) proporsi come giudice per apporre il bollino blu della trasparenza. La White list fa sorgere, inoltre, altre perplessità: quando un’inchiesta coinvolge aziende a sospetta infiltrazione malavitosa, il danno si riverbera comunque anche sulla eventuale ditta appaltatrice, non fosse altro per le inevitabili spese legali che si trascinano (per esempio, con ricorsi al Tar), oltre al danno di reputazione. Nella White list, insomma, c’è qualche punto nero.

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