Ci è voluto un anno di governo, ma la prima grande riforma è fatta: il jobs act, alias legge sui rapporti di lavoro, era una delle promesse e premesse del premier, Matteo Renzi, al momento della sua ascesa a Palazzo Chigi. La seconda grande riforma, quella istituzionale, procede tra la guerriglia interna della maggioranza e quella, trasversale dell’opposizione. Ma, se la sinistra del Pd e le intemperanze di Renato Brunetta non faranno saltare il banco, anche quella potrebbe arrivare in porto: sarà approvata definitivamente l’abolizione del Senato (e dei suoi costi) e nuova legge elettorale. Restano da affrontare gli altri due grandi impegni dell’esecutivo: la riforma fiscale e quella dell’istruzione. Quest’ultima dovrebbe arrivare (o, meglio, essere annunciata questa settimana).
Resta la riforma più importante e difficile, quella del sistema fiscale. E non si tratta di tagliare le tasse: che piaccia o no, le imposte in Italia sono alte, ma non certo le più pesanti tra quelle dei 28 Paesi che compongono l’Unione Europea (https://youtradeweb.com/2015/02/istat-non-siamo-piu-tartassati/). Il problema è il sistema fiscale, con la sua burocrazia e, non da ultimo, la bizantina macchina amministrativa che rende il pagamento delle tasse un’attività che spinge il cittadino più vicino alla santità (anche perché gli accorcia la vita).
A questo si aggiunge il problema della giustizia tributaria. In Italia le controversie tributarie fino alla Cassazione sono spesso decise da giudici quasi per hobby. Cioè non sono magistrati specializzati nella complicata materia, ma dirigenti dello Stato, professori, avvocati, commercialisti, pensionati, ufficiali della Guardia di finanza a riposo. In sostanza, un’azienda si trova a fare i conti con un giudice armato di buona volontà, ma che non ha una competenza fiscale accertata (per esempio da un esame, da un concorso). Non solo: questi giudici nel tempo libero, sono pagati, riferisce LaVoce.info, dai 250 ai 400 euro al mese, più circa 30 euro a sentenza. Quale impegno sia compatibile con una cifra del genere è difficile immaginarlo. È facile che i giudici così sottopagati non passino ore chini sui libri contabili, le dichiarazioni fiscali o i documenti a supporto delle sentenze che devono emettere. Umanamente, non si può pretendere l’entusiasmo. Risultato: le aziende e i professioni si trovano persino a che fare con sentenze diverse per la stessa tipologia di fatto portato in giudizio. Se la contestazione riguarda l’eredità del nonno, è un guaio per i familiari litigiosi. Ma se si tratta, per esempio, delle tasse di una multinazionale o di una grande impresa, il rischio del labirinto fiscale è quello di scoraggiare gli investimenti. A questo si aggiunge una carenza di specialisti nella parte stretta dell’imbuto, la Cassazione. In questo periodo, per esempio, i magistrati sono alle prese con le udienze per i ricorsi presentati alla fine del 2009.
Insomma, il fisco è una palude, in confronto alla quale le invettive di Maurizio Landini, la fronda di Stefano Fassina e le minacce di Raffaele Fitto sembrano zuccherini. Ma, d’altra parte, il boccone amaro lo hanno assaggiato per tutti questi anni i contribuenti.