Le nostre imprese giocano sul campo internazionale con lo svantaggio di energia cara e infrastrutture insufficienti
«Negli ultimi dieci anni la dotazione infrastrutturale del Paese ha sofferto di un pesante gap». Risultato: 50 miliardi di ricchezza perduta «nel solo 2010 per il divario infrastrutturale esistente fra le diverse aree del Paese». Le parole, amare come un fernet, sono state pronunciate da Claudio Andrea Gemme, presidente di Confindustria Anie, solo qualche giorno fa. Lo svantaggio su cui devono fare i conti le imprese italiane è, in effetti, sempre più pesante. Il divario infrastrutturale rispetto alla Germania nell’ultimo decennio, sono sempre parole di Gemme, «si stima abbia fatto perdere 142 miliardi di Pil». E, cosa ancora peggiore, dal 1990 l’Italia ha destinato alle infrastrutture «il 35% in meno» rispetto agli altri Paesi. Per non parlare delle risorse comunitarie (cioè i fondi strutturali e Fas): sono stati «utilizzati solo il 12% degli oltre 41 miliardi stanziati per il 2007-2013».
Insomma, non solo le costruzioni, ma un po’ tutto il sistema delle imprese è svantaggiato rispetto ai nostri competitor. Come se giocasse a calcetto su un campo inclinato, con la palla che rotola inesorabilmente verso la nostra porta. Prendiamo il caso dell’energia. Le bollette per le famiglie rimangono affidate a un sistema di sussidi incrociati che fa pagare prezzi europei a chi consuma poco e troppo a chi è costretto a utilizzare più elettricità. Non lo dicono industriali incavolati, ma si legge nella relazione al Parlamento del presidente dell’Autorità per l’energia Guido Bortoni, presentata a metà giugno. Nel’analisi si legge che il prezzo del gas è più alto tra il 5 e il 10% rispetto a quello della media Ue. E le imprese pagano l’elettricità mediamente il 30% di più, con un divario che invece di ridursi aumenta. Unico dato positivo: il prezzo del gas si sta lentamente allineato a quello dell’Europa grazie ai nuovi benefici dell’apertura internazionale dei mercati all’ingrosso. Ma l’insieme ha un effetto persino paradossale: nella composizione della bolletta, sia per le famiglie che per le imprese, il peso degli oneri che non riguardano la componente energia cresce sempre di più. Ci sono troppe tasse che servono per pagare altro, insomma, e in questo modo si restringono strutturalmente gli spazi di competizione tra fornitori. I dati di confronto con gli altri Paesi sono lì a confermare il problema: secondo Eurostat, l’incremento registrato in Italia, sul fronte dell’energia elettrica, è il terzo maggiore alle spalle di Cipro (+21%) e Grecia (+15%).
Una situazione diametralmente opposta a quella di Svezia (-5%), Ungheria (-2%) e Finlandia (-1%).
Un altro punto dolente è quello dei trasporti e della logistica. Sotto questo aspetto, l’inefficienza del nostro Paese è stata valutata a 40 miliardi di euro, una specie di tassa invisibile sul sistema economico e produttivo. Gli esperti ritengono che tale gap rispetto alla media europea non si sia modificato negli ultimi anni. Se si riuscisse, quindi, ad abbassare di un solo punto percentuale l’incidenza del costo della logistica e dei trasporti sul valore della produzione, si otterrebbe già un risparmio di circa 10 miliardi l’anno. Non c’è da stupirsi: secondo un report 2012 della Banca Mondiale, l’indice Lpi che misura l’efficienza della logistica colloca l’Italia al 24esimo posto nel mondo, dopo quasi tutti gli altri principali Paesi Ue e molti Paesi asiatici.
Che fare? Secondo Gemme occorre una strategia di ampio respiro: «Sarebbe anacronistico pensare il contrario. I percorsi e gli scenari in termini di reti e infrastrutture, città, edifici, sono già delineati e si basano sulla capacità di gestire e scambiare informazioni, sulla maggiore richiesta di funzionalità, sulla integrazione, sulla decentralizzazione di intelligenza nelle singole parti. Gli edifici sono destinati a diventare i nodi intelligenti di reti intelligenti e, come tali, parti di un sistema più ampio nel cui contesto il parametro energetico quasi zero dovrà essere ridefinito».