Il ventunesimo secolo sarà ricordato, forse, come i cento anni verdi che hanno salvato il mondo. O, almeno, così si spera. La svolta green segna buona parte della politica internazionale, pur tra mille ostacoli. E per le imprese, dall’automotive all’edilizia, è l’impronta della sostenibilità a tenere banco, supportata da bonus e incentivi. Con qualche ombra, però.
Va registrato, in ogni caso, che dei 222 miliardi di euro di investimenti del Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che con i quattrini europei dovrebbe segnare una svolta nella nostra economia, 107,7 miliardi (quasi la metà, il 48%) riguardano il settore delle costruzioni.
Per i prossimi cinque anni le previsioni indicano che il comparto costruzioni possa crescere del 3,3%, soprattutto grazie alla riqualificazione delle infrastrutture.
A questo tesoretto si aggiunge il turbo del superbonus, che pur con tante limitazioni e farraginosità, nei primi sei mesi è arrivato a quota 24 mila interventi, per un valore totale di quasi 3,5 miliardi di euro (+39,7% rispetto a maggio). Da maggio a giugno l’aumento è stato del +32% in termini di numero di interventi e del +39,7% nell’importo. Insomma, l’Italia è sempre più verde, e anche i mattoni rossi non sono più quelli di una volta, perché ora sono capaci anche di isolare l’edificio.
Persino dagli imprenditori che negli anni scorsi hanno (giustamente) alzato il tono dei lamenti, ora si ascoltano parole che suonano come una soave melodia: «Abbiamo davanti una delle sfide più impegnative della nostra storia: il Recovery plan, che con 107,7 miliardi sui 222 stanziati vede il settore delle costruzioni protagonista dei progetti di ammodernamento del Paese», ha commentato il presidente di Ance, Gabriele Buia.
La rivoluzione verde non è indolore
Insomma, è il momento di lasciarsi andare, cullati da previsioni dolci come zucchero filato? Sarebbe bello. Ma il mondo non va come nei sogni. E, come ricorda il buonsenso comune, c’è sempre un altro lato della medaglia.
Quindi: è vero che gli euroaiuti e gli incentivi fiscali hanno spinto e continueranno a spingere il settore di edilizia e costruzioni. Però è altrettanto vero che la rivoluzione verde non è indolore.
Avremo edifici meno energivori, d’accordo. Ma, per esempio, riconvertire le fabbriche per ridurre emissioni e consumi costerà caro. E questo si ripercuoterà sui prezzi dei prodotti, generando inflazione e, forse, un calo dei consumi. È un pessimismo cosmico?
Non proprio.
Incentivi e soldi europei vanno collocati all’interno del processo di transizione energetica green che la Commissione europea vuole accelerare. È il pacchetto Fit for 55, che porta dal 40 al 55% il taglio netto di gas serra (rispetto al livello del 1990). Un traguardo da raggiungere entro il 2030, cioè in meno di nove anni, e che (forse) permetterà di arrivare a zero emissioni di carbonio per la metà del secolo.
Se così sarà, l’Europa avrà senza dubbio il merito di aver almeno provato a evitare che Venezia sia sommersa dalle acque, Mose o no, a causa dello scioglimento dei ghiacci dell’Artico.
Insomma, la presa di posizione europea non è solo una presa di posizione ideologica: lo sprint verde è dettato dal timore che il cambiamento climatico stia peggiorando più velocemente del previsto. E i disastri provocati contemporaneamente da alluvioni, incendi e siccità, sono considerati segnali che non si può perdere altro tempo: bisogna cercare di frenare i mutamenti idrogeologici dettati dal clima.
Premesso tutto questo, non sarà una strada facile per le imprese, a partire da quelle della filiera edile.
Ceramica e transizione energetica
Il settore più a rischio, per esempio, è quello della ceramica, uno dei fiori all’occhiello dell’Italia: un’attività che occupa 27 mila addetti e ha grande impatto sull’export, visto che vende oltrefrontiera l’85% della produzione. L’onda verde, però, rischia di mandare a gambe all’aria la filiera di piastrelle di gres e ceramica.
Uno dei problemi è già ben presente: com’è noto, esiste un mercato di certificati legati alle emissioni di CO2. Vuoi emettere anidride carbonica per produrre piastrelle? E allora paghi: le imprese devono acquistare quote Ets (cioè i titoli che permettono di produrre una tonnellata equivalente di CO2). Questi titoli, nel tempo, hanno creato un mercato: si acquistano e si vendono, come fossero azioni. Con tutti i benefici, ma anche i lati negativi che ne conseguono.
Con l’impennata post covid e con la spinta speculativa, per esempio, gli Ets sono arrivati (al momento della stesura di questo articolo) a quota 55 euro, contro i 24 euro del 2020, quando il covid aveva messo il silenziatore alla produzione industriale.
«Gli extra costi per acquistare le emissioni di carbonio si mangeranno il 18% dell’utile del nostro settore», si è lamentato il presidente di Confindustria Ceramica, Giovanni Savorani.
Ma il costo degli Ets non è l’unico problema. Perché l’industria della ceramica, notoriamente energivora, vede come uno spettro il citato accordo europeo per la riduzione delle emissioni al 55%.
«Senza alternative energetiche disponibili sul mercato equivale a dire che dobbiamo chiudere le fabbriche e smettere di produrre. Significa cancellare posti di lavoro in nome dell’ambiente. Non esistono tecnologie che oggi ci consentano di assecondare questa impennata di decarbonizzazione. Le nostre aziende sono pronte, siamo reduci da investimenti record (2 miliardi in cinque anni, il 10% del fatturato) per ammodernare gli impianti e renderli green e digitali. Dagli anni Novanta a oggi abbiamo già ridotto del 62% le nostre emissioni. Ma dov’è l’idrogeno? Dov’è l’energia pulita per fare un nuovo salto in pochi anni?», è il grido di dolore espresso dal presidente dell’associazione confindustriale all’indomani dell’impegno green di Bruxelles.
Secondo uno studio di Boston Consulting Group, che ha pubblicato il Sole 24Ore, nel 2030 tra costo diretto annuo sostenuto per emettere CO2 e quello indiretto per i maggiori oneri in bolletta, l’industria ceramica italiana avrà completamente eroso gli utili (circa 260 milioni nel complesso), annullando la possibilità di sostenere nuovi investimenti.
E il Green Package, cioè l’obbligo di utilizzare un imballaggio sostenibile, secondo Confindustria Ceramica di fatto reintroduce le accise su fonti energetiche, che entrano nel processo produttivo per la trasformazione fisica dei materiali, e comporterà altri 25 milioni di esborso l’anno.
Insomma, con l’onda verde l’industria della piastrella vede rosso e preme perché le norme europee spostino i paletti della sostenibilità.
A far imbestialire gli industriali di Sassuolo e dintorni, poi, è anche l’esclusione del settore ceramico tra le industrie considerate a rischio di delocalizzazione. Al contrario, le industrie di vetro, acciaio, carta, alluminio sono compensate dei maggiori oneri in bolletta per arginare la tentazione di spostare le fabbriche in Paesi extra Ue con politiche climatiche meno costose. La ceramica, invece, non è considerata a rischio perché, purtroppo o per fortuna, non è facile trasportare macchinari, investimenti e know how in Slovacchia o in Romania. Quindi, non gode di questi euro vantaggi. È tutto da vedere, quindi, se la ceramica riuscirà a spuntare un regime diverso.
Ma il libro nero della ceramica ha ancora un altro capitolo: il costo dell’energia. E le politiche verdi, che come abbiamo spiegato hanno sacri obiettivi ecologici, possono ulteriormente peggiorare la situazione.
Produrre energia verde costa. E, al momento, costa di più di quella prodotta con carbone e petrolio. A questo si aggiunge che in Italia l’industria ceramica paga già l’elettricità a un prezzo (15 centesimi per kilowatt) che è maggiore rispetto ai concorrenti europei (11-12 centesimi) e oltre il doppio delle industria cinesi (7 centesimi) o americane (6 centesimi).
Insomma, una situazione di svantaggio, con la politica verde che rischia di diventare la pietra tombale (in ceramica) su uno dei fiori all’occhiello del Paese. Conclusione: parlare di transizione verde è semplice, renderla reale è giusto, ma molto, molto complicato.