Non è colpa del covid. Ma il covid ha dato una mano. Anzi, più che una mano, una mazzata. Perché i dati sembrano inequivocabili: i centri commerciali soffrono più del resto della distribuzione. E non solo. In generale, il retail boccheggia sotto i colpi delle restrizioni. Ma il problema è che non è solo un fatto episodico.
Quello che è in crisi non è solo il modello di aggregazione degli shopping center, ma un modo di intendere un business, quello della distribuzione, che sta velocemente cambiando e abbraccia tutti i settori, nessuno escluso.
Centri commerciali: nuove aperture al minimo storico
Cominciamo dai centri commerciali. Il trend dura da tempo ed è il frutto di cause differenti tra loro. Rimane, però, un dato: i grandi centri commerciali, i mall nati negli Stati Uniti e importati in Italia quando già Oltreoceano mostravano segni di declino, sembrano essere giunti a un punto di non ritorno. I dati sono impietosi.
Per motivi diversi, dei 28 progetti registrati nel 2019, 15 sono slittati a data da destinarsi e altri due sono finiti direttamente nel cestino. E questa non è la prima crisi dei grandi mall: altre battute di arresto si erano verificate nel 2007 e nel 2011, in coincidenza con le spinte recessive dell’economia.
Intendiamoci, crisi significa rallentamento, non certo la morte. Durante il 2020, per esempio, si sono aggiunti altri cinque nuovi progetti, anche se si tratta semplicemente dell’ampliamento di gallerie commerciali. Ma il trend è chiaro.
Poco prima del lockdown di primavera, per esempio, sono stati chiusi sei piccoli shopping center. Dei sopravvissuti allo stop e che hanno proseguito i lavori, d’altra parte, cinque erano già in fase di avanzata cantierizzazione e sono stati ultimati nel corso dell’anno, mentre per altri sei centri è stata confermata la data di inaugurazione. Non è detto, infatti, che tutti i cluster che comprendono negozi e Gdo, spesso anche quella specializzata dei vari Brico e Leroy Merlin, siano destinati al fallimento.
E, comunque, in Italia i tempi che intercorrono tra la progettazione e la realizzazione sono biblici e, dunque, molti shopping center arrivati al traguardo oggi sono stati ideati magari molti anni fa, quando l’espansione di questo format commerciale sembrava inarrestabile.
Una ricerca di Confimprese sul business dei centri commerciali in Italia, in collaborazione con la società di consulenza Reno, conferma una congiuntura non favorevole a questo tipo di distribuzione organizzata.
Il trend delle nuove aperture, indica l’analisi di Confimprese, è al minimo storico. «C’è più prudenza negli investimenti. Di sicuro in un prossimo futuro si dovrebbero favorire gli interventi di riqualificazione del patrimonio immobiliare nell’ambito di progetti di riconversione merceologica», ha lamentato al Sole 24Ore Roberto Zoia, presidente del Consiglio nazionale dei centri commerciali.
Insomma, si invoca un bonus anche per gli agglomerati dello shopping. D’altra parte, non si può ignorare il peso economico di questo comparto. In Italia si contano oltre 1.200 centri commerciali, che rappresentano il 4% del Pil e danno lavoro a circa 587 mila persone, che aumentano a 780 mila considerando anche il lavoro indiretto e versano un contributo annuo per le casse dello Stato in termini di tassazione di circa 28 miliardi. Nei centri commerciali italiani operano circa 36 mila negozi, di cui circa 7 mila a conduzione familiare, che ne costituiscono una componente essenziale.
Crisi centri commerciali, boom dell’e-commerce e covid
I segni del declino di questo modello, che per ora sono solo indizi, passano attraverso diversi fattori. Uno è il boom dell’e-commerce, che ha sottratto clienti, e non solo ai grandi centri commerciali, ma a tutta la distribuzione.
Per fare un esempio, secondo le stime dell’Osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano nei giorni compresi tra il Black Friday e il Cyber Monday del novembre scorso gli italiani hanno speso online circa 1,5 miliardi di euro: +15% rispetto al 2019 nonostante la crisi che ha toccato moltissime aziende, che hanno a loro volta messo in cassa integrazione i dipendenti. Gli operatori particolarmente aggressivi in termini promozionali, sempre secondo questa stima, hanno realizzato fino a sei-otto volte il fatturato di un giorno medio. Tutti acquisti che non sono passati dai grandi centri commerciali, oltre che ovviamente nei singoli negozi.
Quest’anno, poi, al boom dello shopping in rete si è aggiunto il covid. E i centri commerciali sono stati particolarmente colpiti, anche a causa delle chiusure imposte durante il week end.
Negli shopping center dopo il primo lockdown il tasso di occupazione a livello nazionale è stato in media intorno al 95%, ma in alcune aree come la provincia di Milano si è arrivati al 90% perché crisi e pandemia hanno colpito maggiormente in quell’area. Il Veneto si è rivelato più resiliente della Lombardia e, secondo il Cncc gli incassi sono andati bene in Toscana, Lazio e Sicilia. Ma hanno chiuso molti negozi di abbigliamento anche di brand molto noti, senza contare che il blocco ha colpito bar, ristoranti e fast food.
Secondo le rilevazioni Reno, le presenze all’interno delle strutture commerciali sono calate del 26% e i centri di fascia media sono i più resilienti alla congiuntura negativa. Le minori presenze tendono anche a ridurre il raggio di azione, che determina la divisione per categorie: i centri commerciali classificati come AAA e gli AA, per esempio, hanno un’area d’attrazione sovraregionale o regionale.
Durante il 2020, quindi, è stato registrato il declassamento a livello A di due centri che erano AA. Nessun cambiamento, invece, del numero di centri classificati AAA, come quello alle porte di Milano, di Arese gestito da Finiper oppure l’Orio Center del Gruppo Percassi (105 mila metri quadrati, con 280 negozi, 50 i punti ristoro, 14 sale cinema, un ipermercato e un parcheggio con oltre 7 mila posti auto).
Insomma, qualche super centro commerciale situato in aree strategiche se la cava, ma altri si avviano a un processo di declassificazione. Naturalmente è tutto da verificare se siamo di fronte a un trend duraturo oppure è solo accentuato dalla crisi pandemica. Per esempio, una ricerca Censis- Confimprese indica che a causa della seconda ondata di restrizioni, che si è aggiunta al primo lockdown, per il solo retail la perdita stimata è di 95 miliardi di euro di fatturato (-21,6%), con la accessoria perdita di oltre 700 mila posti di lavoro. Se poi consideriamo il retail nel suo complesso, il comparto vale 445 miliardi con 3,4 milioni di addetti.
Così non sorprende se la Finiper di Marco Brunelli, che gestisce grandi centri, come quello del Portello a Milano, oppure il gruppo Lonati (Scalo Milano Outlet & More) hanno deciso
di ridurre gli affitti per i retailer partner.
Commercio: retail apocalypse e nuovi modelli omnicanale
Per il settore del commercio, non solo quello dei grandi centri, non è una consolazione neppure sapere che la crisi dei mega centri non è un fenomeno esclusivamente italiano, ma è presente anche gli Stati Uniti, il Paese che ha inventato questi paradisi dello shopping.
Tanto che negli Usa hanno coniato anche una definizione: retail apocalypse. Il vero problema, secondo gli esperti a stelle strisce, non è però solo la concentrazione dei negozi in una area dedicata, quanto la necessità di passare da un commercio puramente fisico, che in America è definito come «mattoni e malta», a un modello omnicanale. E qui il ragionamento abbraccia non solo i centri commerciali, ma più in generale il modello tradizionale di distribuzione.
Dato che spesso quello che avviene negli Stati Uniti precede di qualche anno quello che avviene in Europa, è bene riflettere. I clienti non cercano più solo un negozio tradizionale, ma un ibrido che metta sullo stesso piano la sua rappresentazione digitale con quella che è rimasta invariata da secoli: bancone, proprietario o commesso che serve il cliente e stop.
Come, qualche settimana fa, ha pronosticato Mario Resca, presidente Confimprese: «Per guidare le vendite sarà necessario pensare a nuove modalità di interazione del consumatore con il canale fisico e online, come l’organizzazione di punti vendita, e-commerce e food delivery. Il canale digitale si conferma quindi un elemento fondamentale per continuare a sostenere il business e la customer relationship».
Bisogna, insomma, trovare nuove strade per diventare degli ibridi digitali. Un esempio? Quello di Esselunga, che all’interno di Scalo Milano Outlet & More alle porte di Milano ha installato i suoi armadietti di fianco a quelli intelligenti di Amazon: si acquista online e si ritira il pacco depositato nei locker.
È stata la scoperta di un business in più e, infatti, i locker saranno raddoppiati con il marchio Esselunga: la spesa digitale arriva direttamente all’outlet, in modo da completare la shopping experience del cliente. Finiti gli altri acquisti, insomma, si può ritirare frutta e verdura, carne e latticini, precedentemente ordinati via web: la spesa è consegnata in un locker posizionato nel parcheggio dell’outlet.
L’installazione è situata in un’area apposita, con posti auto dedicati per riporre la spesa, acquistabile online fino a sei ore prima del ritiro per un valore minimo di 40 euro. Nuove strade attendono il commercio.