Il covid potrebbe essere la miccia di una rivoluzione per il mercato immobiliare e, di conseguenza, per l’edilizia: il declino dell’era degli uffici. Certo, non di tutti. Ma lo smart working, già introdotto prudentemente da qualche anno nelle grandi imprese, a causa dell’epidemia è diventato una nuova modalità di lavoro che sembra pronta a radicarsi.
Smart working in crescita
Molte grandi aziende hanno già annunciato che di far tornare i dipendenti in ufficio non se ne parla fino alla fine del 2021. E ci sono imprese che hanno ormai considerato come acquisita una sorta di migrazione di ritorno verso le proprie abitazioni almeno di una parte dei propri collaboratori.
Secondo Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ci sono ancora 4 milioni di lavoratori «che per una parte importante del loro tempo operano da remoto». Un fenomeno che coinvolge indifferentemente piccole e grandi imprese: all’Eni hanno deciso di far rientrare in ufficio solo il 15% dei dipendenti, Enel continuerà a utilizzare lo smart working fino a fine anno, Tim ha raggiunto con i sindacati due accordi che regolano fino alla fine del 2021 il lavoro a distanza, e fino a metà ottobre gli smart worker erano a quota 36 mila. Ancora: Vodafone ha attuato un piano di graduale rientro, ma solo per il 20% dell’orario di lavoro, la banca illimity prevede di far occupare non più del 50% degli spazi, e Pirelli, negli uffici della Bicocca, a Milano, conta su un lavoro da remoto del 75%.
Secondo quanto ha riportato il Sole 24Ore, con le parole di Corso, «assisteremo a un doppio fenomeno perché da una parte aumenterà di cinque o sei volte il numero dei lavoratori a cui si consentirà di fare smart working rispetto alla fase pre lockdown, e crescerà la percentuale di tempo di smart working. Se prima dell’emergenza sanitaria la percentuale di remotizzazione era di un giorno alla settimana, in futuro questa media sarà di due o tre giorni. È quindi possibile che si andrà verso una modalità di lavoro al 50% in presenza e al 50% da remoto». Una previsione attendibile: un’indagine dell’Aidp, l’associazione dei direttori del personale, indica che il 68% vuole prolungare lo smart working anche dopo la fine dell’emergenza.
Ha rincarato Stefano Boeri, sempre sul quotidiano della Confindustria: «Siamo al capolinea del modello di città moderna costruito due secoli fa intorno alla sincronizzazione degli orari e alla concentrazione nelle fabbriche, nei mercati generali, nelle stazioni ferroviarie». L’architetto del Bosco Verticale vede, com’è noto, una seconda vita per i borghi, proprio grazie (o a causa) del fenomeno smart working, che non sarà passeggero.
Che cosa comporta tutto questo per il mercato immobiliare, la progettazione e il settore delle costruzioni? Siamo davvero di fronte a un cambiamento storico, come quello che ha svuotato tante fabbriche? E che cosa ne sarà degli uffici lasciati vuoti? Pensare ai tre giganteschi grattacieli appena terminati di CityLife, a Milano, e subito rimasti senza impiegati, fa venire i brividi. Senza contare che attualmente nel capoluogo
lombardo in costruzione ci sono altri 100 mila metri quadrati di nuovi uffici.
«Milano può rinascere riscoprendo la sua natura di città universitaria. Di grande polo di attrazione di giovani da tutto il mondo che anche quest’anno hanno confermato e addirittura incrementato le iscrizioni nei grandi atenei milanesi», è il pensiero di Boeri. «Questi 200 mila ragazze e ragazzi, appassionati esploratori del futuro, che portano il mondo nelle nostre città sono il capitale umano per rigenerare Milano e le nostre città. Ma dobbiamo offrire loro residenze a costi sostenibili e servizi e infrastrutture adeguate a far sì che non scappino dopo la laurea. Perché non pensare di trasformare in residenze studentesche temporanee (e in laboratori e spazi di coworking) almeno una parte degli uffici vuoti che il Covid sta ancora più svuotando? Potremmo riportare nelle zone terziarie vuote una linfa vitale oggi indispensabile».
Crisi sanitaria e mercato immobiliare
Un portale web di affari immobiliari, L’idealista, è stato tra i primi ad affrontare il problema in un’ottica di real estate. «La crisi sanitaria porterà a cambiamenti profondi nel mercato immobiliare, in particolare per gli spazi per uffici, accelerando il processo di obsolescenza di alcuni stabili che non rispettano le nuove tendenze emergenti», ha commentato Virginie Wallut, direttore per Real Estate Research and Sustainable Investment della società di gestione La Française Real Estate Managers.
Una prospettiva condivisa da Jll, sigla che sta per Jones Lang LaSalle Incorporated, società americana di servizi immobiliari commerciali. L’azienda, interessata ovviamente all’evoluzione del mercato immobiliare relativo ai luoghi di attività aziendale, ha elaborato uno studio che prevede quattro fattori che determineranno il mercato degli edifici destinati a uffici: più lavoro da remoto e meno viaggi, più flessibilità, migliore equilibrio tra vita privata e lavorativa. Ma secondo Jll la tendenza allo smart working non durerà per sempre. Altro pilastro sarà la nuova progettazione degli spazi, che dovranno tenere conto di digitalizzazione, sistemi di sicurezza, soluzioni smart per favorire l’interazione dei colleghi anche a distanza.
Infine, ci sono altri due driver: la tecnologia per efficientare la capacità degli uffici e la gestione degli accessi, il livello di pulizia e sanificazione, la ventilazione e la temperatura, accanto a una riconsiderazione dei trasporti, in particolare quelli dei pendolari.
Intanto, si cominciano ad avvertire i primi scossoni, per ora all’estero: l’azienda che gestisce il social network Pinterest ha pagato 82,5 milioni di dollari (75,2 milioni di euro) ad Alexandria Real Estate Equities pur di annullare il nuovo contratto di affitto che aveva stipulato a San Francisco. L’azienda lascerà sul mercato i 150 mila metri quadri che voleva affittare per la sua sede. Un’opzione alla quale stanno pensando anche altre aziende.
Di certo, in ogni caso, per almeno un anno le misure di sicurezza sanitaria impatteranno pesantemente sugli spazi aziendali. Occorrerà adeguarsi a delle linee guida specifiche per gli spazi di lavoro che prevedono una riduzione della densità del personale in ufficio, oltre a interventi di sanificazione e ventilazione. È questa l’opinione espressa da Alberto Cominelli, Cbre (società di consulenza immobiliare), nella quale ricopre la figura di Italy Head of Project Management. Secondo Cominelli, prossimamente «solo il 30-50% lavorerà in ufficio».
Oltre all’effetto ancora tutto da decifrare sul mercato immobiliare dei grandi edifici vetro e cemento vuoti nelle città, con le aziende che si chiedono come riutilizzare lo spazio in esubero, c’è anche un altro riverbero causato dallo smart working: l’impatto sul mondo delle costruzioni.
Si tratta, in primo luogo, dell’improvvisa esigenza di ricavare maggiore spazio nella propria abitazione da parte di chi lavora da remoto. Ma non solo: lo smart working può anche beneficiare altre nicchie di mercato. Secondo la società di locazione Italianway, per esempio, il 20% delle prenotazioni ricevute per case vacanze di mare e montagna provengono da chi ha scelto il lavoro agile.
Un’altra conseguenza che, secondo alcuni, impatterà sul mercato immobiliare, sarà il proliferare di spazi per il co-working. È una soluzione scelta da chi, per esempio, lavora con un rapporto di partita Iva e non vuole o non può restare sempre a casa. Anche perché in questo caso il titolare di partita Iva può scaricare dalle tasse la spesa per la postazione di lavoro in coworking. Un trend indicato anche da Jens Böhnlein, Global Head of Office di Commerz Real, società che lavora per modernizzare la struttura del complesso chiamato Le 4 Porte vicino all’aeroporto di Milano Linate e definito «un nuovo ecosistema lavorativo».
Non a caso una ricerca del 2018 di Cushman & Wakefield, una delle maggiori società private del mercato immobiliare mondiale, prevedeva che entro il 2020 metà dei lavoratori europei avrebbe utilizzato spazi di lavoro condivisi. Gli estensori non potevano prevedere che il coronavirus avrebbe scompigliato le carte, ma in parte ci avevano azzeccato.
Il cambiamento mette in crisi l’organizzazione di molte aziende. Però si traduce anche in business per il mercato dell’edilizia, che dovrà adeguare spazi e ristrutturare edifici non più adeguati alle nuove esigenze. «Negli ultimi dieci anni la domanda di spazio non è diminuita, ma si è assistito a un mutamento dell’uso dello stesso: gli spazi singoli si sono ridotti in favore degli ambienti di lavoro collettivi.
L’affollamento pro-capite, oggi pari a 12-15 metri quadri, potrebbe crescere a causa di linee guida più restrittive emanate dalle multinazionali e questo potrebbe comportare un incremento del fabbisogno di spazio. Ci sarà bisogno di ambienti di lavoro più grandi, sale riunioni più ampie. E non solo durante l’emergenza covid-19, ma anche in futuro, cambiando anche il modo di vivere gli spazi di lavoro», è la riflessione di Cominelli.
Insomma, bisogna dire addio all’ufficio tradizionale? Non tutti lo pensano. Anzi, è un architetto come Mario Cucinella ad aver frenato sulla diffusione a oltranza del lavoro da casa. «Lo smart working è interessante, ma in realtà in un lavoro come il mio si può fare parzialmente, perché parliamo di un lavoro di relazione, di scambio costante e quotidiano attraverso mille forme, dal prendere insieme un caffè alla discussione su un progetto», ha spiegato nei mesi caldi del lockdown. «Questa parte di socialità con lo smart working non c’è. Anche io ho vissuto fino a poco fa la pressione in studio e la frenesia che ne deriva, ma in fondo è anche vero che è quel sistema frenetico a generare creatività, idee e proposte innovative.
Quindi, questa modalità di lavoro può andare avanti per un po’, ma non a lungo. La progettazione ha bisogno di dialogo, del disegno fisico e della sua interpretazione». Ma, certamente, se lo smart working temporaneo si trasformerà in un nuovo paradigma, anche la progettazione degli spazi dovrà adeguarsi. È facile immaginare che nuovi uffici avranno più aree comuni, dove chi occupa una postazione di lavoro staziona magari solo per un giorno o due la settimana, oppure per poche ore ogni tanto. E, naturalmente, anche uno spazio complessivo che sarà ridotto, anche se le indicazioni anti-contagio prevedono distanziamento tra le scrivanie.
In compenso, l’ufficio non potrà fare a meno di essere adeguatamente cablato e aperto all’ormai costante rinnovo delle tecnologie. Per esempio, con uno o più locali destinati alle video conferenze. Per contro, si restringeranno gli spazi destinati a servizi come quelli per la ristorazione (bar, mensa interna), che saranno meno frequentati. Ed è tutto da verificare se serviranno ancora spazi destinati a palestra e svago, tendenza introdotta dai grandi headquarters dell’hi-tech, da Google in giù. Ma che rischiano di essere già old economy.
Smart working: come cambia l’azienda
Lo smart working comporta cambiamenti nell’ambito delle attività organizzative delle aziende. E l’orientamento prevalente è quello di procedere verso lo sviluppo di una nuova cultura aziendale. Non solo: nelle imprese quasi il 30% prevede di procedere con evoluzioni e cambiamenti organizzativi. Sono alcune delle conclusioni alle quali è giunta un’indagine di Agyevo, iniziativa nata dalla collaborazione tra AbProject e Nextstrategy.
L’indagine ha analizzato le esperienze vissute da organizzazioni e persone nella fase di lockdown. All’analisi, avviata a maggio 2020 e conclusa a metà giugno, hanno partecipato 106 organizzazioni di diverse dimensioni, caratteristiche e settori di attività. Risultato: il concept di organizzazione flessibile è introdotto dal 33,7% e quello di una nuova modalità gestionale dal 17%. Oltre il 90% intende proseguire l’esperienza con diverse modalità e rilevanza: il 37.66% parzialmente, circa il 20% prevalentemente e quasi il 4% complessivamente. Inoltre, quasi il 30% pensa di far evolvere l’attuale situazione verso una nuova modalità gestionale.
Non mancano, però, gli aspetti critici, come la difficile conciliazione tra lavoro e famiglia (42.8%), isolamento ( 29.8%), integrazione organizzativa (22.1%), anche se il 25.9% delle risposte non evidenzia alcun tipo di difficoltà.