Come ricordava tempo fa il presidente dell’Inps, Tito Boeri, «in Italia ci sono circa 700mila famiglie in attesa di assegnazione a fronte di 45mila alloggi di edilizia residenziale pubblica disponibili ogni anno. Come dire che una famiglia su 15 viene accontentata ogni anno, con liste d’attesa che durano quanto un terzo della vita lavorativa. Più di un quarto degli italiani che dormono per strada o nei centri di assistenza a Milano e Roma hanno fatto domanda per una casa popolare e, nonostante debbano avere priorità, sono mediamente in attesa da sei anni». Non solo: il patrimonio edilizio esistente è in condizioni pietose. Molte delle case popolari occupate sono rimaste vuote perché in condizioni di degrado. Ristrutturarle sarebbe già un passo in avanti, ma gli enti che le gestiscono, come l’Aler a Milano e l’Ater di Roma, non hanno i fondi necessari.
Bisogna ricordare questo quando si parla di Germania. Già, perché a spingere la locomotiva tedesca, che ha visto un Pil lievitato dello 0,7% nel primo trimestre (+1,6% su base annua), c’è anche l’edilizia popolare. È la domanda interna, proprio quella che manca all’Italia, a spingere il Prodotto interno lordo. E, forse un po’ paradossalmente, questo è dovuto in parte a un effetto poco desiderato dai tedeschi (su questo in linea con gli italiani): l’immigrazione. Le spese governative per la gestione dei profughi e la necessità di fornire presto un alloggio il settore dell’edilizia ha fatto segnare un balzo del 3,5% nei primi tre mesi dell’anno e ha contribuito pro quota dello 0,2% sul totale del Pil. Certo, gli esperti segnalano che la buona performance è dovuta anche a un inverno particolarmente mite, che ha favorito chi lavora nei cantieri. Ma il dato rimane. A cui se ne aggiunge un altro: secondo il ministero per l’Edilizia di Berlino, la spesa per alloggi popolari dovrebbe raddoppiare a 2 miliardi l’anno fino al 2020.
Domanda: invece di puntare sempre il dito sulla rigidità dei tedeschi, ogni tanto non sarebbe il caso di imitarli?