La Fondazione Italcementi ha organizzato a Bergamo un convegno che aveva per tema «Rammendare le periferie attraverso la rigenerazione urbana, per un nuovo Rinascimento del nostro Paese». «Le nostre città e il nostro territorio hanno bisogno di grandi interventi di riqualificazione», ha spiegato in apertura Giampiero Pesenti, presidente di Italcementi. «Una rinascita che cambi in meglio le realtà urbane, le periferie in particolare, e la vita stessa delle persone che le vivono. È accaduto e accade in molte parti del mondo e dell’Europa: pensiamo a Marsiglia, Berlino, Londra e alle molte altre realtà urbane in cui zone vecchie e degradate dei centri abitati hanno lasciato il posto a quartieri più sostenibili, più belli, più vivibili, contribuendo alla rinascita economica e sociale di intere città. È quello di cui anche il nostro Paese oggi ha grande bisogno: un’insieme di coraggiose operazioni di recupero di vaste aree inutilizzate, o male utilizzate, che consentano di innescare un circolo virtuoso di sostituzione di quegli edifici che non garantiscono più standard accettabili di sicurezza strutturale, di efficienza energetica e anche di vivibilità dal punto di vista architettonico, urbanistico e sociale. Oggi l’innovazione nel campo dei materiali e delle tecnologie ci mette a disposizione soluzioni impensabili in passato ed è nostro dovere far sì che queste conquiste siano a disposizione di tutti, anche, forse soprattutto, di chi vive nelle aree più marginali».
A entrare nel dettaglio del problema è stato chiamato uno dei più grandi architetti (oltre che senatore della Repubblica), Renzo Piano. Pubblichiamo integralmente il suo intervento.
di Renzo Piano
Sono sempre stato convinto che il grande tema per i prossimi decenni sono le periferie: sono stati centri storici negli anni ’60; subito dopo la guerra i centri storici venivano considerati come qualcosa da dimenticare, poi finalmente è stato chiarito che invece erano essenziali. E quella è stata una battaglia vinta in qualche maniera negli anni ’60, ’70, ’80 è diventato chiaro; oggi negli anni 2010, 2020, 2030, 2040, 2050, tutti questi anni, la grande scommessa sarà quella delle periferie. Le periferie sono la città che sarà, o che non sarà, è ma se non sarà saranno guai grossi, perché è lì che è la forza, l’energia delle città. Mediamente l’80, 90% delle persone vivono in periferia, in tutte le città, e non c’è niente di male, se non che la parola “periferia” è sempre associata all’aggettivo “degradato”, lontana, abbandonata, triste. E non è immaginabile perché è lì dove le città hanno il loro futuro, ed è la grande scommessa.
La prima cosa ovviamente da fare è non crearne di nuove, per la semplice ragione che sono insostenibili. Si parla tanto di sostenibilità, beh quella è la prima insostenibilità: non si possono fare altre periferie. Allargare le città a macchia d’olio, per esplosione, significa fare sostanzialmente dei quartieri che poi devono essere serviti da strade, da servizi, da impianti, dalla raccolta dei rifiuti, dalle fogne, da mille cose per cui la città diventa insostenibile, diventa dispersa, perde anche di forza.
Questo è un aspetto che è al tempo stesso, come dire, tecnica, cioè economica, ma poi anche umano, perché evidentemente a questo punto queste periferie continuano a essere periferie, periferiche per l’appunto, monofunzionali. Questa è la ragione per cui – e non l’ho certo deciso io – l’economia stessa della terra, di tutti i paesi, ha deciso che non si possono continuare a fare nuove periferie. Anzi, quel che è successo, in molte città, Londra credo che sia stata la prima a dotarsi della cosiddetta “green belt”, cioè la “cintura verde”; cominciò ben prima di Ken Livingstone, poi continuò con Ken Livingstone, ma oggi è acquisita. Londra si è dotata di una cintura, di una linea verde tutta attorno alla città, oltre alla quale non si deve costruire, oltre alla quale la campagna resta campagna. Cosa vuol dire questo? Perché qualcuno lo interpreta come un’impossibilità di crescere? Questo è un errore.
Costruire sul costruito
Basta capire che si deve crescere per implosione, non per esplosione, non facendo ancora altre periferie, ma completando il tessuto che già esiste, costruendo sul costruito, andando a occupare tutti quegli spazi che normalmente vengono definiti in inglese “brown field”, definiamoli spazi compromessi, spazi cementificati.
Ecco, questa famosa cementificazione, abbiamo cementificato tanto. Bisogna smettere di farlo esternamente, ma possiamo trasformare tranquillamente molto cemento all’interno delle città in quartieri, in qualcosa di diverso, possiamo urbanizzarli. Questi luoghi sono come dei buchi neri all’interno delle città, sono le aree industriali dismesse, quelle ferroviarie dismesse, talvolta quelle militari, ce ne sono tante; nella mia carriera ne ho incontrati di tutti i colori, comprese quelle politiche, perché nel bel mezzo di Berlino c’era tutta l’area dismessa del muro di Berlino. E stranamente quello era proprio mittel, cioè il centro, il cuore di Berlino. Ma quello è l’unico caso che io ricordi di un fatto così grave, cioè un vuoto creato dalla guerra fredda. Per il resto i vuoti che sono rimasti intrappolati nelle città sono sostanzialmente di origine ferroviaria, industriale, militare talvolta. E però ce ne sono tantissimi, e c’è anche la possibilità di intensificare gli spazi costruiti; se prima una città come Londra, ma non solo, c’è la possibilità molto spesso di intensificare costruendo un po’ più alto, questo non vuol dire per forza facendo dei grattacieli, ma aumentando la densità. Sarebbe anche sciocco pensare che questo sia un errore; no, perché una città in realtà è bella, è vivibile solo se ha una certa intensità, se è intensa, se ci si trova, se c’è una certa intensità. Una città troppo diluita, l’esempio naturalmente classico a cui si pensa subito è Los Angeles, ma Los Angeles è un caso lontano, troppo lontano dalla cultura europea per farne un caso. Los Angeles ha il suo fascino, la sua bellezza a modo suo, ma è una città-territorio, una città-paese, è grande come lo spazio contenuto tra Genova, Milano e Torino. Los Angeles insomma è una città-territorio. Ma se no, quasi sempre le città hanno la possibilità di crescere all’interno, per l’appunto per implosione. E questo non è nient’altro che quello che è sempre successo nella storia delle nostre città.
Si è sempre costruito sul costruito. Naturalmente, è evidente, è più facile costruire su un terreno vergine, in periferia, cioè è molto facile, basta pulire, si fanno le fondazioni, si sale e basta. Ci vuole più abilità, ci vuole più sottigliezza a costruire sul costruito.
La sfida del rammendo
È un’opera di rammendo. Abbiamo usato questa parola rubandola ad altre attività, però è un’opera che implica una grande attenzione, e anche una capacità diagnostica, ad esempio. Bisogna essere in grado di usare degli strumenti diagnostici. Insomma catapulta l’attività di costruire in un mondo nuovo, un po’ più organizzato e un po’ più scientifico, ancora più preciso. Devo dire che è un modo di crescere per i costruttori. Io sono figlio di un costruttore, sono cresciuto in quest’atmosfera, ho sempre amato costruire, però è chiaro che è una vera sfida per i costruttori, questa. Costruire sul costruito, costruire completando nelle aree dismesse significa confrontarsi con dei temi più complessi, di contesto; talvolta di contesto idro-geologico, di contesto minerario, bonifiche; ci sono dei temi nuovi, insomma, che hanno a che fare con il campo diagnostico ad esempio. D’altronde in medicina nessuno si sognerebbe di intervenire senza prima diagnosticamente conoscere esattamente di cosa si sta parlando.
È chiaro che è molto più facile se si tratta di un terreno vergine alla periferia: basta fare un buco per sapere qual è la composizione del terreno. In città è molto più complesso, ci sono delle preesistenze, ci sono delle fogne, ci sono dei cavi elettrici, insomma è tutto un po’ più complicato. Il fatto che sia più complicato non fa altro che diventare una scommessa per i costruttori migliori, ne sono convinto. Non è meno interessante, è più interessante, però richiede una certa maturazione, richiede un’abilità. Inoltre in ambiente urbano, anche sul piano dell’organizzazione del cantiere, – che è una cosa che io prediligo, perché io resto molto legato al cantiere, pur facendo un mestiere che è quello dell’architetto – ma bisogna sapere come organizzarlo. In ambiente urbano non si possono far andare camion carichi di terreno sporco avanti e indietro tutto il giorno, bisogna inventare dei sistemi. A Londra, per lo Shard di Londra, ad esempio, abbiamo usato la tecnica top-down, cioè abbiamo scavato con dei minatori, quindi lentamente la parte sotto, cioè man mano che si saliva con le strutture, si scendeva con le fondazioni. E questo ha consentito di rallentare il ritmo dei camion e, però al tempo stesso, senza rallentare la costruzione dell’edificio. In altri cantieri, come a Berlino, abbiamo usato il Landwehrkanal, che è un canale che passava lì vicino, per portar via, trasferire i detriti e portare i materiali. Talvolta sono le linee ferroviarie che si usano; nelle aree ferroviarie dismesse c’è sempre qualche binario che lo consente. Insomma, l’abilità dei costruttori diventa più sottile, deve diventare più sottile, ma resta quello che è, resta un inventore.
Il miracolo dell’urbanità
Si riesce quasi sempre a passare da una zona cementificata a una zona decementificata, cioè si passa da brown field a un green field. Perché i green field, intanto: perché si recupera quasi sempre nei centri urbani del verde, magari sono frange di verde, ma è molto importante. Ma soprattutto green field perché si portano a abitare delle persone; si trasforma, si urbanizzano dei luoghi che erano dei buchi neri, cioè diventano città. È questo il vero destino delle città: rinforzarle, ridar loro vigore. E soprattutto trasformare le periferie in luoghi dove la vita si svolge 24 ore al giorno. E questo cosa significa? Significa che non possono essere dormitori, non possono essere luoghi dove si va soltanto a dormire, o a lavorare. Bisogna riuscire a ottenere quel miracolo che fa sì che le città sono luoghi urbani, di urbanità; e la parola “urbano”, tutti lo sanno, non è solo un aggettivo che certifica l’appartenenza alla città, ma anche un modo di essere. Una persona urbana è una persona civilizzata, e non a caso “città” e “civiltà” hanno la stessa radice, si assomigliano persino, in italiano.
Quindi idea di i trasformare delle zone monofunzionali in zone plurifunzionali, dove c’è non soltanto residenza o fare acquisti come sono certi supermercati, ma ci sono anche altre attività, quelle di lavoro, quelle creative, quelle culturali, quelle dei servizi. Uno dei sistemi più importanti per fertilizzare le periferie è proprio quello di portarci delle attività pubbliche, che siano ospedali, siano tribunali; a Parigi, nella banlieue parigina, stiamo costruendo il grande tribunale di Parigi a nord e la nuova normale Università di Parigi a sud. Cioè, è così che bisogna fare, bisogna portare dei luoghi dove la gente si incontri, dove la gente condivida dei valori, nelle periferie.
Sono le scuole, sono le università, sono le biblioteche, sono anche le sale per concerto, se è possibile, anche i musei. Io non voglio dare un’importanza eccessiva ai musei, ma insomma, tutto ciò che aiuta a fare, a creare dei luoghi di incontro, dei luoghi di condivisione è molto importante perché è questo che fertilizza, che feconda le periferie, e che le trasforma da luoghi monofunzionali e un po’ abbandonati, urbanamente parlando, in luoghi di vita complessa.
Cercasi bellezza
E poi c’è un’altra cosa di cui voglio parlare ad ogni costo, perché, mentre dei centri storici nelle battaglie avvenute ormai negli anni ’60, ’70, ’80 del secolo scorso si parlava; i centri storici sono belli, sono direi fotogenici. Le periferie non sono fotogeniche; si dice che sono brutte, e non è vero. Le periferie talvolta godono di una bellezza per la quale non sono state costruite. Sono state fatte male, sono state fatte senza affetto, quasi con disprezzo talvolta. E, nonostante ciò, c’è una bellezza che riesce a spuntar fuori; e non è solo la bellezza umana degli sguardi dei ragazzini, e questo è molto romantico, è proprio una bellezza dovuta al fatto che ci sono degli orizzonti, che c’è una bella luce; la natura spesso aiuta.
Almeno questo, perché è chiaro che, mentre in città gli spazi verdi sono pochi, nella periferia possono essere molti di più, il verde può aiutare. E quindi c’è questa interessante avventura alla quale assisteremo nei prossimi 50 anni – se riusciamo a smettere di fare nuove periferie – di trasformare quelle che ci sono in luoghi felici, luoghi belli e in luoghi urbani, in città. E dare ai centri urbani delle funzioni che non sono solo quelle dello shopping centre: perché a questo punto sono diventati spesso, stanno purtroppo diventando sempre di più dei luoghi di consumo, molto chic, molto snob, ma dei luoghi di consumo. E questa è la via della scommessa e, altro piccolo dettaglio, se evitiamo di ampliare ancora ulteriormente le periferie, questo significa che la campagna al di là della linea verde non troppo immaginaria ci deve essere davvero sui piani regolatori; la campagna continua a essere campagna, se no questo luogo di confine tra la città, la periferia, la campagna diventa qualcosa di impossibile, perché non è più città, ma non è ancora campagna. Non è più niente, ha perso tutti i valori. E per questo poi è degradata. È degradata fisicamente, moralmente, perché non è più niente. Bisogna avere il coraggio di stabilire che fino ad un certo punto la città è città, ci sono i servizi, poi la campagna torna a essere campagna, e specialmente in un paese come il nostro, dove, se non si fa così, consumiamo il territorio a un ritmo assolutamente folle. Ecco, quindi vorrei sfatare la teoria per cui questo ragionamento impedisca alle città di crescere. No, gli consente di crescere, ma secondo una crescita sostenibile.
Materiali da reinventare
Io ho sempre avuto una grande passione per rivisitare i materiali di costruzione, è così che si fa; io ho tanti amici musicisti, amici musicisti che studiano il suono, ma addirittura il rumore, cioè, si deve sempre andare all’origine delle cose. All’origine dell’architettura ci sono i materiali e, all’origine dei materiali di costruzione, ci sono quelli di sempre: ci sono il legno, la pietra, e poi ce n’è uno che è il cemento naturalmente. Il cemento è un’invenzione straordinaria, che ormai ha anche una certa età, ma anche quello vive di reinvenzioni. Il legno vive di reinvenzioni. Il legno lamellare, incollati, legni, i legni ricostruiti, la pietra. Si può tagliare la pietra con delle macchine digitali che la conformano esattamente come deve essere per fare degli archi straordinari, o per fare dei pezzi, dei pezzi, che una volta si sarebbero potuti soltanto fare con mille scalpellini che lavorassero con perfezione. Cioè, tutti questi materiali, il vetro, basta pensare al vetro, l’evoluzione del vetro. Il cemento anche, il cemento, la resistenza del cemento, il cemento ad alta resistenza, il ferrocemento. Io sto costruendo in Grecia, ad Atene, per la Fondazione Niarchos, un grande captatore solare sopra la biblioteca, la loro biblioteca di Atene, che è 10.000 m2, che è un grande foglio di ferrocemento e, anche quello, è da reinventare. E mi piace questo esplorare i materiali, naturalmente anche nuovi (fibre di carbonio), esplorare il loro potenziale espressivo, cioè ogni materiale porta con sé una promessa di forma, una promessa espressiva, diciamo così; per un architetto, il cui interesse sia quello di costruire dei ripari per il genere umano, è fatale occuparsi dei materiali, esattamente quello che farebbe Robinson Crusoe che si ritrovasse su un’isola deserta: guarderebbe attorno, cercherebbe i materiali, poi con quei materiali penserebbe; ecco, per fortuna non siamo su un’isola deserta; però ci sono tanti materiali che non aspettano nient’altro che essere reinventati, riusati, e approfonditi; è proprio questa specie di scommessa umana dell’andare a fondo delle cose, senza dimenticare che sono materiali che hanno una memoria, hanno una loro memoria, però hanno un potenziale enorme di invenzione.