Non esiste ancora un registro dei pentiti. Ma il fenomeno c’è, e inizia a essere percepibile: imprese che avevano delocalizzato all’estero, in Paesi dove il costo del lavoro è basso, decidono di far ritorno in Italia. Da noi non è merito di politiche particolarmente incentivanti, ma il fenomeno è mondiale: produrre a basso costo, a volte, è un costo. Uno studio di Boston Consulting Group, per esempio, ha calcolato che in Usa il 50% delle aziende con almeno 1 miliardo di dollari di fatturato prevedono un re-shoring, cioè un ritorno delle attività produttive, negli Stati Uniti. In piccolo, è quello che sta avvenendo in Italia, principalmente in Veneto. Qualche mese fa un gruppo di studio riuniti attorno a Uni-Club MoRe Back-reshoring (con docenti degli atenei di Catania, Udine, L’Aquila, Bologna e Reggio Emilia) ha contato 79 casi di aziende che avevano delocalizzato all’estero e che ora sono rientrate. In più, sono state contate altre 12 aziende che pur non tornando in Italia hanno ridotto la distanza tra la località di produzione e la Penisola: fenomeno che è stato definito di nearreshoring.
Insomma, è un po’ come in quella serie televisiva degli anni Sessanta, dove il pastore belga Lassie dopo tante avventure tornava sempre a casa. Gregorio De Felice, responsabile del servizio studi di Intesa San-Paolo, ha fatto notare che «le dimensioni del fenomeno in Italia sono molto limitate rispetto a quanto sta accadendo negli Stati Uniti», perché negli Usa il crollo dei costi energetici e una politica pubblica di incentivo all’insediamento delle imprese ha favorito un ritorno in grande scala». Ma il contro esodo, seppur limitato, c’è. In particolare, a fare le valige e a tornare in Italia sono le imprese che fanno della qualità e del made in Italy una bandiera. Prime tra tutte quelle del settore moda: «L’Italia non è mai sparita, parlare di reshoring oggi è forse un fatto di modernità», ha confermato Eraldo Poletto, amministratore delegato di Furla, che ha riportato a casa parte delle produzioni che aveva delocalizzato. «Rispetto al 2011 produciamo nel Belpaese 300mila borse in più», ha precisato. Secondo gli esperti, i settori più interessati al re-shoring sono moda (43,5% delle decisioni totali), elettronica ed elettrotecnica (18,8%).
Ma che cosa decide il ritorno a casa le imprese? Soprattutto il risparmio sul dazio doganale e una maggiore prossimità al cliente. Inoltre, si riducono i costi di trasporto e di logistica, ed è più flessibile la gestione degli ordini. C’è anche chi ha calcolato che sotto il 5% di differenza dei costi delocalizzare all’estero si trasformi in una perdita. Senza contare l’aspetto della qualità dei prodotti.
Eppure, se il re-shoring è fenomeno positivo, sconta una mancanza della politica: negli Usa Barack Obama ha fatto del ritorno a casa una colonna della politica economica, convincendo molte aziende a tornare, con le buone o con le cattive. In Italia, invece, il Parlamento non si è ancora accorto di quanto possa essere importante far tornare a casa le imprese. Un bonus a chi rientra, insomma, sarebbe una buona idea.