Grandi opere, grandi equivoci, grandi errori

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Lavori per la Torino-Lione

Grandi opere, grandi equivoci, grandi errori

 

I costruttori le invocano. Il governo le promette. Il Paese le attende. Ma le grandi opere infrastrutturali non sono sempre e comunque un toccasana. L’esempio di questi giorni dovrebbe fare riflettere. Lo scolmatore del Seveso, presentato per anni come la soluzione giusta per far defluire l’acqua alta, non è servito a evitare che mezza Milano si allagasse. Bisognava fare altro o, perlomeno, qualcosa in più.

Ci sono poi i problemi chiamati eufemisticamente «burocratici» e che sono, in realtà, frutto di un esasperato concetto di libera concorrenza. Spesso, come a Genova, i soldi pubblici stanziati e disponibili non sono spesi perché gli appalti sono bloccati dai ricorsi giudiziari delle aziende che hanno perso (a torto o a ragione) la gara. I tre anni di blocco, nel caso specifico di Genova, sono quelli previsti dalla legge e non la responsabilità degli amministratori locali, in particolare il sindaco, additati al pubblico ludibrio. In fondo, sarebbe bello se le colpe fossero di una sola persona, ma non è così. E nemmeno si tratta dell’odiata burocrazia, cioè di lungaggini nell’ottenere certificati e permessi. Però l’impressione generale (sbagliata) è invece che la colpa sia dei «politici». Casomai, in questo caso, la responsabilità è del tecnico comunale che ha scritto una gara d’appalto magari in modo confuso, che si è prestata meglio a un ricorso. Fare chiarezza serve.

Ci sono poi i localismi. Definirli così è già conferire loro un attributo negativo. Sono quelli che, nelle realtà specifiche, vengono definiti «principi irrinunciabili di democrazia». Cioè la sindrome Nimby (not in my backyard, cioè non nel mio cortile): fate pure i vostri lavori, basta che non siano vicino a casa mia. Umanamente comprensibile, per carità, ma di fatto esiziale per le sorti del territorio. E non solo. Sempre Milano (non la Sicilia) ne è la testimonianza: tutti contenti che affluissero milioni da investire in infrastrutture in vista dell’Expo. Ma poi i cittadini si ribellano quando la strada a tre corsie passa vicino alle case o un canale attraversa il quartiere.

Le infrastrutture sono belle. Altrove, però.

Prendiamo il Tap, il grande gasdotto che deve approdare in Italia dal lontano Azerbaigian. Il punto di arrivo, la costa pugliese, non piace ai cittadini del Comune di Melendugno, che a colpi di ricorsi stanno bloccando i lavori che potrebbero trasformare l’Italia in un hub europeo del gas e, soprattutto, bypassare le minacce dello zar Vladimir Putin. È un’opera che non solo si fa una volta ogni cento anni, ma che garantirebbe all’intero Paese un ruolo centrale sul mercato del gas europeo. Bisogna tenere conto, inoltre, che il tubo (circa un metro e mezzo di diametro), non attraverserà la spiaggia della località pugliese, ma sarà sotterraneo e sbucherà parecchio lontano dalla costa. Insomma, i turisti non lo vedranno neppure: lo scavo sarà tutto realizzato con una cosiddetta talpa meccanica, a qualche metro di profondità. E, infine, il disagio sarà anche ben pagato. Eppure i meledugnesi non ne vogliono sapere.

Attenzione, però: ci sono anche, al contrario, le grandi opere che sono realizzate per motivi politici, o per errori strategici, ma hanno poche fondamenta. Una di queste opere è la cosiddetta Tav, cioè la Torino-Lione ad alta velocità. In questo caso il problema non è di natura politica, di essere pro o contro una causa, antagonisti contro il «partito del fare», e neppure una questione ambientale. È solo una questione di merito. Come fanno rilevare gli economisti bocconiani riuniti nel sito Lavoce.info, saranno spesi un sacco di soldi per una linea ferroviaria che non ha traffico. «Il traffico pesante attraverso i trafori stradali del Fréjus e del Monte Bianco ha raggiunto un massimo di circa 1,4 milioni di veicoli nel 1994, si è quindi stabilizzato e negli ultimi anni si è ridotto di circa il 20% sia a causa della recessione, sia per la diversione di una parte dei flussi su altri itinerari causata da un rilevante aumento dei pedaggi. Le proiezioni derivano dall’applicazione a quella specifica direttrice dei tassi di crescita medi dei flussi di merce registrati degli scorsi decenni lungo l’intero arco alpino. Ma così facendo: a) si ignorano le sostanziali differenze che caratterizzano le varie direttrici e b) non si considera che le tendenze manifestatesi nel corso degli anni Ottanta e Novanta sono in parte riconducibili a condizioni eccezionali, come il completamento del mercato unico e la realizzazione su scala continentale di una capillare rete autostradale con radicale abbattimento dei tempi di trasporto, che non potranno evidentemente riproporsi nei decenni a venire». Insomma, l’Italia investirà tra i 15 e i 20 miliardi (o forse più, come fanno balenare le cronache) per un’opera che rimarrà sostanzialmente poco utilizzata: «Sembra dunque ripetersi l’errore già compiuto negli studi redatti nei primi anni Duemila dalla commissione intergovernativa franco-italiana che stimavano per il 2015 un numero di veicoli medio giornaliero pari a 6.600, cioè esattamente il doppio rispetto a quelli registrati lo scorso anno», concludono Paolo Beria, Raffaele Grimaldi e Francesco Ramella, gli autori dell’analisi.

Se tutti quei soldi fossero stati impiegati per il dissesto idrogeologico forse la pioggia farebbe oggi meno paura.

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